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CATALOGS 

 

ELIO FRANZINI

catalogo della mostra CHORA PARK

Fondazione Collegio San Carlo, Modena 2018

Lo spazio politico della bellezza

La bellezza, sostiene Paul Valéry, non può essere considerata una “nozione pura”, anche se tale nozione è stata essenziale nel divenire della spiritualità occidentale e ha segnato una metafisica che è alla base del pensiero filosofico. Platone, volendo sintetizzare, e con tutti i rischi della sintesi, opera proprio ciò che, a parere di Valéry, non andrebbe fatto, cioè separa il Bello dalle cose belle.

Il lavoro di Marina Gasparini insegna invece a ricollocare la bellezza nello spazio, in quel termine ambiguo che i greci chiamavano chora, che è il luogo – il luogo incerto – in cui si inscrive la polis, la città. Ambiente in cui si fondono, come nel sangue, attraverso fili che sembrano sangue, microcosmo e macrocosmo. Il senso, la bellezza, l’arte, può essere nei cieli, come “idea” non sensibile, ma può anche essere idea “estetica”, che si frantuma nelle cose, nel nostro stesso corpo – tra Copernico e Vesalio. Al tempo stesso, nulla vieta di cercare, ed eventualmente trovare, l’universale nel particolare, operando, come in questa installazione, una sintesi felice. Qui la bellezza non è soltanto nei cieli della metafisica: e se ciò non accade è proprio perché la sua “idealità” diventa politica, chora, incarnandosi in “oggetti” destinati a occupare spazi pubblici e sociali.

Vi è qui, in questo lavoro, una vera e propria visione “politica” dello spazio pubblico, che si presenta attraverso istituzionalizzati caratteri estetici. Vi deve così essere, nel bello, un principio “superiore”, che è quello della simmetria, che consiste nell’accordo armonico tra loro delle parti dell’opera e nella loro corrispondenza con la configurazione complessiva. Vi è inoltre nella costruzione di un oggetto bello l’esigenza di ordine, che deriva da una corretta disposizione delle parti, che si traduce in euritmia, simmetria, convenienza e distribuzione. Il fine è la venustas, cioè la bellezza, che si compone in un sapiente gioco modulare. I disegni che qui si costruiscono generano una forma “mista” che è unificazione aperta di concetti diversi, di differenti modi di concepire la polis. Il bello è stato, ed è, un modo per determinare il senso di una forma che non si chiude in se stessa, ma sempre si pone come “struttura di rinvio”, alla ricerca di una relazione organica tra visibile e invisibile, tra pubblico e privato. In grado, in primo luogo, di favorire la comunicazione tra i soggetti, l’articolazione di giudizi capaci di connettere sul piano sociale lo spirituale e il corporeo. L’installazione di Marina Gasparini insegna che l’arte, per usare un’espressione di Pavel Florenskij, esige una policentricità della rappresentazione: l’arte non è una idea lontana, ma un modo per meglio osservare, descrivere, riprodurre la qualità degli eventi del mondo, la chora che contiene la polis che abitiamo.

L’epoca del provvisorio, come Karl Löwith chiama la nostra modernità, deve saper creare i fili rossi che costruiscono, in tutti la sua ambiguità, una nuova chora, un nuovo ambiente, consapevole dell’oscillare dell’uomo fra ordine e caos, in una stabilità sempre minacciata, ma all’interno della quale si rinnova, con spirito faustiano, il fare della natura e quello dell’uomo. Faust è ora l’immagine di quel che forse può essere la funzione politica della bellezza oggi, che è quella di accettare la polivalenza e la pluralità: è qualcosa infinitamente moltiplicato il cui destino, e il cui tormento, è quello di ricominciare senza mai esaurire né la durata né il possibile. In questo modo sintetizza in sé un percorso che raccoglie le aporie della modernità, alla ricerca di una loro misura, di uno spirito nuovo che le interpreti. Scopre il filo rosso di una modernità come possibilità di dialogo, dialogo tra il sapere e il potere, tra il medesimo e l’altro, tra il progetto e la sua crisi, tra concezioni dello spazio comuni e pur distanti: il suo tempo non assorbe in sé, nella staticità metafisica o in un circolo che ritorna su se stesso in un sogno paganeggiante, gli elementi in dialogo, bensì pone in movimento l’istante, mostra la possibilità costruttiva del molteplice, il desiderio di unità che è in esso, la stabilità e l’arbitrio di una forma posta in essere da un movimento aporetico.

Chora indica dunque una dialettica politica della bellezza, una dialettica polifonica, dove nessun principio prevarica sugli altri: mostra uno sguardo sullo spazio che lo disegna come un “sistema di riferimenti”, che può essere considerato “a distanza”, quasi oggettivato dagli sforzi spirituali di chi osserva e, al tempo stesso, vissuto, in modo che i luoghi siano descrizione di alcuni paradigmi alla ricerca dei valori concettuali della spazialità.

Ci si può allora avviare a una conclusione che riporti all’inizio, al motore primo di questa installazione di Marina Gasparini, cioè a Platone, in un passo del Gorgia, in cui si rimprovera Callicle perché non tiene conto che il cielo e la terra, gli dèi e gli uomini sono legati tra loro in una comunità fatta di amicizia e moderazione. Callicle non ne tiene conto perché dimentica l’uguaglianza geometrica, ovvero un’idea di kosmos – forse l’unica a cui, nella sua polivalenza, si possa ricondurre l’idea di bellezza senza perdersi nella sua mutevolezza, e fallibilità, storica.

Si tratta così di recuperare proprio una concezione politica dello spazio, sul modello offerto dal Gorgia: l’organizzazione dello spazio è soltanto un aspetto di uno sforzo più generale per interpretare e rappresentare il mondo umano.

Che cosa sia oggi tale kosmos è difficile da dire, da definire, forse anche solo da pensare: il che però deve rendere la bellezza uno spazio davvero “civile”, e non un ideale astratto o soggettivo. Valéry, come già si è accennato all’avvio, ironizza sulla volontà filosofica di definire la bellezza, separando il bello dalle cose belle, separandolo dagli spazi in cui appare, dalle “città” in cui vive. Valéry vuole scindere la bellezza dalla retorica che la invade, escludendola dal nostro spazio politico. Quando, invece, se guardiamo la storia della bellezza dall’antichità agli albori della modernità, vediamo una strada da recuperare, quella proprio di rendere la bellezza “politica” e non solo astrattamente filosofica, inserendola, come qui accade, in una chora.

Ma ciò significa anche comprendere che la bellezza “parte dal basso”, conosce il brutto e la deformazione, e non è soltanto immagine splendente, estetistica e autoreferenziale. Non è soltanto il piacere delle forme, bensì una “grazia”, un’offerta, cioè un segno di disponibilità nei confronti del mondo, consapevole del travaglio e della potenziale tragicità del finito che la attraversano con i loro dissidi, con scale di valori tra loro in dialogo. È quindi la struttura ideale, il nome generale di un percorso progettuale che trova i suoi specifici riempimenti nel divenire complesso di forme culturali, mitiche, simboliche.

Elio Franzini

The Political Space of Beauty

Beauty, says Paul Valéry, is not to be considered a “pure notion”, even if it is one that has been fundamental in the history of western spirituality, and determined a metaphysical thought that is the foundation of philosophy. To summarize, and with all the risks that summarizing implies, Plato does exactly what according to Valéry should not be done to separate the Beautiful from beautiful things.
Marina Gasparini’s work, instead, teaches us to situate beauty in space, in what the Greeks called, using an ambiguous term, chora, i.e. the place – the uncertain place – where the polis, the city, is inscribed. A work that is an environment where, as in the blood, through blood-like threads, microcosm and macrocosm blend. Meaning or beauty or art can reside in the heavens as “idea” that can’t be perceived by the senses, but they can also be “aesthetic” idea that is fragmented in things, or in our body – in between Copernicus and Vesalius. At the same time, nothing keeps us from searching for, and possibly finding the universal in the particular, thereby creating the happy synthesis we see in this installation. Here beauty does not reside only in the metaphysical heavens precisely because its “ideality” becomes political, chora, embodying itself in “objects” destined to occupy public and social spaces.
In this work we find a genuinely “political” vision of public space, which is presented through institutionalized aesthetic characters. In beauty there needs to be a “superior” principle, that of symmetry, which consists in a harmonious agreement among the parts of the work, and in their correspondence with the configuration of the whole. In the construction of a beautiful object there is also the need for order, which derives from a correct disposition of the parts, and which translates into eurythmics, symmetry, propriety and distribution. The goal is venustas, beauty, arranged in a skillful game of modularity. The patterns built up here generate a “mixed” form that constitutes the open unification of different concepts, different ways of conceiving the polis. Beauty was, and is, a way of determining a sense of a form that is not closed into itself. Rather, it always presents itself as a “referring structure” in search of an organic relationship between the visible and the invisible, between public and private. Above all, it can foster communication among subjects, as well as the formulation of judgments able to connect the spiritual and the corporeal on the social plane. Marina Gasparini’s installation teaches us that art, to use an expression of Pavel Florenskij, requires a polycentricity of representation: art is not a distant idea, but a way to better observe, describe and reproduce the quality of the events of the world, the chora that contains the polis we inhabit.
The era of the transitory, as Karl Löwith calls our modernity, must learn to spin the red threads that weave a new chora, in all its ambiguity, a new environment that is conscious of humanity’s wavering between order and chaos, and of its continually threatened stability, but where the operations of nature and of humanity are renewed in a Faustian spirit. Faust is now the image of what may be the political function of beauty in our time: the acceptance of polyvalence and plurality. This function is infinitely multiplied; its destiny, and its torment, is to start again without ever exhausting either the enduring or the possible. Thus, it synthesizes a journey that includes the aporias of modernity, searching for their measure and for a new spirit to interpret them by. It discovers the red thread of a modernity, where dialogue is possible: dialogue between knowledge and power, between self and other, between the project and its crisis, between ideas of space that are shared and yet distant. Its time does not absorb the dialoguing elements in static metaphysics or in a circle turning back on itself as a dream of paganism. Rather, it sets the instant in motion and shows the constructive possibility of multiplicity, the desire for unity within it, and the stability and free will of a form brought into existence by an aporetic movement.
Chora, therefore, indicates a political dialectics of beauty, a polyphonic dialectics, where no one principle overpowers the others. It shows a way of seeing space as a “system of references” that can be viewed “at a distance”, almost as though objectified by the spiritual efforts of the observer, and which at the same time is lived in, so that places become descriptions of paradigms in search of the conceptual values of spatiality.
And so we come to a conclusion that takes us back to where we began, to the primary motor of this installation by Marina Gasparini: in short to Plato, to a passage from his Gorgias in which Callicles is admonished because he fails to take into account that heaven and earth, the gods and men, are linked in a community of friendship and moderation. Callicles does not take this into account because he forgets the geometrical equality, that is to say an idea of kosmos – perhaps the only idea to which, in its polyvalence, it is possible to reconnect the idea of beauty without losing ourselves in its historical mutability and fallibility.
The question, then, is how to recover a political conception of space, according to the model offered by the Gorgias, considering that the organization of space is only one aspect of a more general effort to interpret and represent the human world.
What this kosmos is today is hard to say or define or perhaps even conceive; but all this have to make beauty become a truly “civil” space and not an abstract or subjective ideal. As we observed at the beginning, Valéry ironizes about the philosophical desire to define beauty, separating the beautiful from beautiful things, from the spaces where it appears, from the “cities” it lives in. Valéry wants to distinguish beauty from the rhetoric that invades it, banishing it from our political space. Yet if we observe the history of beauty from ancient times to the birth of modernity, we can find a path to follow to make beauty “political” and not just abstractly philosophical, by situating it, as is done here, in a chora.
But this also means understanding that beauty “comes from below”: it knows ugliness and deformation. It is not only a luminous, aesthetically pleasing and self-referential image; it is not only the pleasure of forms. Rather, it is a “grace”, an offering, a sign of openness to the world, conscious of the hardships and potential tragedy of the finite that inhabit it with their disagreements and their dialoguing values. It is therefore the ideal structure, the general name for the project of a journey that finds its own fulfillment in the complex growth of cultural, mythical and symbolical forms.

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MAURA POZZATI

in Intrecciano

Foro Boario, Modena 2004

Catalogo della mostra Ed. Artestampa

See you later

Come Italo Calvino ha dato alla leggerezza un valore positivo, in quanto sottrazione di peso dal linguaggio, così Marina Gasparini usa la leggerezza per cambiare la nostra immagine del mondo. Attraverso la purificazione delle immagini e attraverso l’uso di materiali leggeri e delicati, dà consistenza alle ossessioni e racconta la propria vita. Ne risulta un intreccio di parole, oggetti e forme che, nel loro frapporsi, creano una suggestione: le ciotole del cane diventano preziose come quelle di ceramica e il bicchiere di cristallo è come il biberon. All’artista importa la rete di relazioni tra le parti, tra gli oggetti di uso quotidiano e le parole, tra le singole frasi e un possibile racconto. Perché il racconto c’è, come in un libro. E c’è anche l’intreccio, elemento fondamentale di ogni struttura narrativa. Ma pare assente la voce narrante. Si direbbe che il narratore si sia nascosto per essere libero di mescolare l’ordine degli avvenimenti. Sta a noi leggere il testo, combinare le parti, ricucire visivamente i frammenti. E se ci fermiamo a leggere scopriamo che tra parole e oggetti c’è una corrispondenza… l’ora del the e la tazzina, la regressione all’infanzia e il biberon, il bisogno di tranquillità e la bustina di camomilla. Ma tra gli oggetti di uso domestico si insinuano parti di messaggi mandati a qualcuno via e-mail. Esiste dunque una corrispondenza reale tra due persone che si scrivono quando vogliono, quando possono, quando ne hanno bisogno ma senza guardarsi negli occhi, senza toccarsi. Forse si tratta di un lungo messaggio amoroso, un amore platonico e cerebrale che ha lasciato dietro di sé emozioni ormai sbiadite, scolorite. Forse per questo i colori che utilizza Marina sono tenui e delicati come i vassoi di stoffa trasparente sparsi per terra. L’emozione si è fatta leggera, quasi impercettibile, in quanto vive nella soglia che divide il reale e il virtuale, il mondo esterno e l’interno. Ma si fa anche resistente e pulsante perché non risparmia nessun aspetto della vita…

See you later

Just as Italo Calvino gave a positive value to lightness as subtraction of weight from language, so Marina Gasparini uses lightness to change our world picture. Through the purification of images and the use of light, delicate materials she gives consistency to obsessions and narrates her own life. The result is a fabric of words, objects and forms that create a powerful fascination as they interweave: the dog’s bowl becomes as precious as a ceramic, while the crystal glass is like a baby’s bottle. What is important to the artist is the web of relations among parts, between everyday objects and words, between single phrases and a possible story. Because the story is there, as in a book. And there is also a plot, the fundamental element of every narrative structure. Yet, the narrative voice seems to be missing. One would say that the narrator is hiding in order to be free to confuse the order of events. It is up to us to read the text, put the parts together and visibly stitch up the fragments. And if we stop to read, we discover that between the words and the objects there is a correspondence… tea-time and the cup, regression to infancy and the baby’s bottle, the need for tranquility and the bag of chamomile tea. And  parts of messages sent to someone by e-mail slip themselves in among these everyday objects. Is there really, then, a correspondence between two people who write to each other when they want to, when they can, when they need to, without seeing one another, without touching? Perhaps this is a long message of love, a platonic, cerebral love that has left behind emotions by now faded. Perhaps this is why the colors used by Marina are subdued and delicate, like the trays of transparent fabric scattered on the ground. Emotion has grown light and almost imperceptible, since it abides on the threshold that divides the real and the virtual, the outer and the inner worlds. But it also grows resistant, pulsating, because it does not neglect any aspect of life…

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DARIO TRENTO

in MNAR/AASI/R-PN/IGAI/

Edizioni Galleria Mazzoli

Modena, 2013

La rivoluzione bianca di Marina Gasparini

Sono possibili opere radicali nei nostri anni? Sono possibili svolte radicali? Mai come adesso in quasi tutte le manifestazioni tocchiamo con mano la frustrazione per l’inadeguatezza dell’ordine presente e l’incapacità di produrne uno nuovo. Dove sono finiti gli indignados, i ragazzi di Occupy Wall Street, i manifestanti di piazza Tahrir, i giovani ribelli siriani di qualche anno fa?

Tanto più interessante, quindi, che uno scarto silenzioso e sottotraccia, ma netto come un taglio di lama, arrivi dal lavoro concreto di un’artista: il Libro bianco (2001) di Marina Gasparini è un atto reale di sovversione e rifondazione nello spazio della vita quotidiana. E’ un occhio buttato su quanto è più scontato e assodato nella nostra percezione, già registrato in infiniti codici rappresentativi e narrativi, ma nel racconto di Marina eccolo ricomparire nel modo più fresco e inatteso e soprattutto con una carica energetica esplosiva. Lo spazio restituito è quello di casa e Gasparini lo ricostruisce attraverso un programma digitale di rilievi per architetti o scenografi. Lo ricostruisce, cioè, con una forma di rappresentazione che, siccome in questo momento è a disposizione di tutti in tutto il globo, è quanto di più neutro, universale e oggettivo. Sono immagini che avrebbe potuto fare chiunque, leggibili da tutti e che potrebbero rappresentare lo spazio di vita di ciascuno. Accanto a questa serie di riprese, che sono comunque trascrizioni di visioni e emozioni di esistenza, l’artista ha accostato frasi che trascrivono frammenti del suo vissuto quotidiano, brandelli di pensiero nati accanto a quel mobile, davanti a quella specchiera, chiudendo quella porta. Così disegni nitidi al tratto, esatti come rilievi scientifici di visioni, si accostano a frammenti di quotidianità oggettivi come registrazioni audio o pagine di diario. L’accostamento produce una intimità intensissima, però attraverso strumenti neutri e impersonali: fogli bianchi e il tratto nero del disegno tecnico e della scrittura al computer. Eccoci davanti agli elementi di un dispositivo che dà avvio a un racconto completamente nuovo con una capacità di presa conoscitiva fortissima. Una rivoluzione linguistica molecolare.

Ma il dispositivo prevede uno sviluppo ulteriore, quando l’artista scarica sui rilievi tecnici della sua casa il desiderio, con i pensieri ellittici, le impennate, le rabbie. Come lo fa? Sulla pagina bianca e sul segno nero e oggettivo aggiunge il tratto libero umano troppo umano della matita: vestiti e scarpe per terra e sul letto, oggetti nelle mensole e sugli scaffali, immagini nei quadri alle pareti. Aggiunge, soprattutto, scritte: “Sai disegnare?” … “Perché ci si stanca?” … “Freschi pensieri insostenibili” … “Fammi arrabbiare” … “Fammi godere” … “Fammi impazzire!” … “Fammi ridere” … Sul piano neutro del foglio standard, sul tratto oggettivo del disegno tecnico il tratto nervoso vibrato della matita si deposita come un nuovo inizio, una ripartenza. Quindi il Libro bianco è un dispositivo limpido, completo e universale per far ripartire l’esperienza del mondo. E’ il germe di un linguaggio semplice e universale. Marina Gasparini è arrivata a questo risultato da un lungo viaggio sulle tracce e le sedimentazioni delle memorie culturali. Un adepto warburghiano avrebbe molto da scavare sui suoi saccheggi di immagini, simboli e cifre. Ma adesso, secondo me, ha ancora di più da scavare su ciò che l’artista ha costruito dopo il Libro Bianco. Da allora simboli, segni, cifre e grafie non sono stati più rievocati dall’artista per sapori e profumi, ma rifondati in una nuova radicalità linguistica. Ecco allora gli alfabeti–insegne del 2003 fatti di lettere in pelle cucite col filo su letti di tela. Ecco le sessantasei ‘tavole’ dell’Atlante hard del 2004, con immagini di oggetti o iscrizioni portate al limite della leggibilità nel linguaggio digitale stampate a getto di inchiostro su seta e cucite su un supporto più leggero. Ecco, ancora, gli spazi della quotidianità ricostruiti nella grafica digitale, questa volta con piani e ombre colorati, stampati su tela e con la scrittura del desiderio cucita con fili colorati: L’amore perde sempre, 2006. Mano a mano che l’esperienza dell’artista si dipana gli strumenti linguistici si arricchiscono e si complicano. Le preziosità che nelle fasi precedenti l’artista affidava ai toni e alle sfumature ora le trasferisce negli strumenti linguistici e nelle regole di operatività che sceglie: le tele, gli inchiostri a getto delle stampanti, la plastica, la ceramica, i fili del ricamo. In tutti questi passaggi Gasparini ha voluto garantirsi la possibilità di emissione emotiva diretta e controllata e di chiarezza di enunciato. Si è mantenuta dentro i confini di un linguaggio universale, ma ha offerto ad esso possibilità di sviluppo inedite e, soprattutto, fragranza di sedimento emotivo. Come ha scritto l’artista (attraverso Deleuze) a proposito della serie più recente dei ricami di Spaesaggio, il suo tema è l’elegia, “la forma poetica che … nasce dalla perdita di status. Ogni giorno migliaia di persone – in seguito a micro e macro conflitti – perdono la loro posizione sociale per passare ad una nuova – e spesso più tormentata – esistenza.” Nei lavori di Marina questo passaggi trovano definizioni circostanziate ed esatte, condensando forme materie e oggetti che troveranno casa nell’ordine futuro.

Marina Gasparini’s White Revolution

Are radical works possible in our day? Are radical turning points possible? Never before have we felt so acutely in almost every sphere our frustration at the inadequacy of the present order and our incapacity to produce a new one. Where have the indignados gone, where is Occupy Wall Street, where the piazza Tahrir demonstrators or the young Syrian rebels of only a few years ago?

And so it becomes all the more significant that in the concrete work of an artist we discover a new turn, silent and covert but at the same time clear and sharp as a cut made by a knife. Marina Gasparini’s Libro bianco [White Book] of 2001 represents an authentic act of subversion and reconstruction within the space of everyday life. It is an eye cast anew onto what is most taken for granted and consolidated in our perceived world, already recorded in infinite representative and narrative codes, but which now re-emerges in Marina’s narrative in the freshest, most unexpected ways, and most of all with explosive energy. The space restored to us is the home, which Gasparini reconstructs using a digital relief program for architects and stage designers. Thus, she reconstructs this space through the most neutral, universal and objectively possible form of representation, one that is now universally available. Anyone could have made these images, anyone can read them, and they could represent anyone’s living space. Then, next to these pictures, which represent transcriptions of the visions and emotions of our existence, the artist has juxtaposed brief phrases that register fragments of her daily life, snatches of thought that may have occurred beside this piece of furniture, in front of that mirror, while shutting that door. The result is that drawings traced with the precision of scientific visual representation are found alongside fragments of objective daily life, like audio recordings and pages from a diary. What emerges is an intense intimacy, paradoxically achieved with neutral, impersonal means — white sheets of paper and the black strokes of a technical drawing or a computer text. We find ourselves in front of elements of a device that sets in motion a completely new and cognitively powerful narrative. A molecular linguistic revolution.

But this device envisions a further development when the artist charges the technical drawings of her house with desire, elliptical thoughts, rebellions, fits of anger. How does she do this? Over the white page and the black, objective sign she adds the free, human (all too human) pencil stroke: clothes and shoes on the floor and the bed, objects on the shelves, images in the pictures on the wall. And most of all she adds bits of writing: “Can you draw?” … “Why do we get tired?” … “Fresh unbearable thoughts” … “Make me angry” … “Make me enjoy” … “Make me go crazy!” … “Make me laugh” … The vehement, nervous line of the pencil is deposited on the neutral plane of a standard sheet of paper, on the objective line of the technical drawing,  like a new beginning, a new parting. The Libro bianco becomes a limpid, complete and universal device for giving a fresh start to the experience of the world. It is the seed of a simple, universal language.Marina Gasparini has reached these results after a long journey following the traces and sedimentations of cultural memory. An expert from Warburg would have much to investigate in her store of images, symbols and ciphers. But now, in my opinion, there would be even more to investigate in what the artist has created after the Libro Bianco. Since then, instead of being evoked through tastes and smells, symbols, signs, ciphers and letters are founded in a new linguistic radicalism. And so we find the alphabet-signs from 2003, made of leather letters sewn with thread on canvas beds. Or the sixty-six ‘panels’ of the 2004 ‘Atlante hard’, with images and objects that are pushed to the limit of legibility in the digital language printed in ink-jet on silk and are stitched onto a light-weight support. In L’amore perde sempre [Love always Loses] of 2006, everyday spaces are once again reconstructed in digital graphics, this time with coloured planes and shadows printed on canvas and the phrases of desire stitched in different colours. As the artist’s experience unravels, her linguistic means grow richer and more complex. The preciousness previously entrusted to tone and nuance is now transferred to language and rules of operation: canvases, ink-jets from a printer, plastic, ceramic, embroidery threads. In all these successive phases, Gasparini has worked towards the possibility of direct and controlled emotive expression and clarity of utterance. While remaining within the confines of a universal language, she has given  it original opportunities for development and, above all, the scent of emotive sedimentation.  As the artist has written (via Deleuze) about her most recent series of needlework in Spaesaggio [Dis-Place], her theme is the elegy, “the poetic form that … is born of loss of status. Every day thousands of people, as a consequence of micro and macro conflicts, lose their social position and cross over into a new – and often more troubled — existence.” In Marina’s work these  crossings find detailed and precise definitions, bringing together forms, materials and objects that will find their home in a future order.

Traduzione di Brenda Porster


FRANCESCA RIGOTTI

in  Il denaro è un bene comune

catalogo della mostra

Musei Civici di Modena 2014

Parole, oggetti, fili: una lettura filosofica del lavoro artistico di Marina Gasparini 

All’inizio era il filo, era il filo della ragione o lògos, il filo del pensiero, il filo del discorso; fili immaginari, metaforici. Ma anche un altro filo stava all’ini-zio, il filo-seme-sperma (questo vuol dire sperma in greco antico), che è poi il filo della vita al suo primo germogliare. I fili filati e articolati danno luogo, srotolandosi e arrotolandosi come serpi, alle parole; e le parole messe una dopo l’altra danno luogo alla linea (da linum, il filo o la cordicella di lino). La linea e la parola insieme producono il testo, dal latino textum, con quella “x” messa lì bene in mezzo a sottolineare l’intreccio di frasi. Che cosa rac-contano le parole e le frasi e le linee? Ci dicono del mondo materiale e delle idee immateriali. Parlano delle cose e degli oggetti; soprattutto degli oggetti, quelle cose solide che ti vengono gettate davanti (dal latino ob-jectum) e che ti impicciano e che ti ingombrano e con le quali devi fare i conti.
Le parole di Marina Gasparini sono di un tipo particolare: alcune sono fatte di filo, perfettamente in linea con quanto abbiamo detto; altre stanno sugli oggetti, intorno agli oggetti, dentro e fuori gli oggetti. Altre ancora sono semplicemente esse stesse fili, fili morbidi che passano attraverso i forellini dei recipienti di ceramica, decorando la materia bianca come la pagina di carta. Le parole stanno sugli oggetti, intorno agli oggetti e raccontano pro-getti gettati in avanti nel futuro. Ci sono scienze e discipline dell’inizio, come l’architettura, e storie dell’i-nizio, come tutte le storie di nascita. Nascita di bambini, nascita di idee. Ci sono storie che vedono protagonisti l’inizio, l’architettura, il filo: c’è una sto-ria in particolare, la storia del labirinto, dove il primo architetto fa edifica-re un famoso palazzo che presenta un problema, la cui soluzione generale, collettiva, sociale sarà offerta da un filo. Filo = mítos o spérma dunque, in greco antico. Mítos come filo, dove mythos invece è la parola. Il filo della vita. Il filo dei pensieri e il filo della storia. Il filo della memoria e il filo del ragio-namento. Trovare il filo, seguire il filo, perdere il filo. Fare il filo alle ragazze. La nostra vita è appesa a un filo. Il filo di lino è la linea, già lo sappiamo, e la linea è la traccia della scrittura («on-line») e dall’intreccio di linee nascono la tela («web») e la rete «net». Guardate il lavoro di Marina Gasparini, guar-datelo bene: non vedete la compenetrazione delle capacità del computer con attività antiche, filare, tessere, cucire, passare fili? E lì che si condensa l’espe-rienza del pensiero creatore e creativo, dell’azione nei suoi aspetti produttivi. In principio c’era allora la textura ma anche la tectura, la tectura prima, l’ar-chi-tectura. Tekton è l’artefice (si pensi a techne), è l’artigiano, è chi fa, fab-brica e produce, chi traccia il disegno dell’edificio, che ne ha la prima idea e intuizione dunque, e poi presiede alla sua costruzione. Come negli interni di ghiaccio di non posso + esserci x te di Marina Gasparini, silenziosi, inquie-tanti e iniziali e progettuali, archi-tecturali. C’era anche un architetto che era pure il primo architetto, un archi-architet-to. Si chiamava Dedalo. E c’era un mito che è il primo e il più antico, il più arcaico mito della mitologia greca, il mito del labirinto costruito da Dedalo. C’è un filo che esce dalla ghiandola dell’addome del ragno (l’aragna, diceva Petrarca e aveva ragione, perché il ragno è un animale femminile) e pro-duce reti e tele bellissime, ma aeree, effimere, inconsistenti. Il filo di bava trasparente che esce dal ventre dell’animale è esile e fragile e poco adatto a rappresentare la stabilità e la consistenza del testo/tessuto. Più adeguata in-vece, la produzione del filo a mano e poi la lavorazione dei fili intrecciati in vari modi: con l’ago, al telaio, all’uncinetto, ai ferri, a formare – nei lavori di Marina Gasparini – parole cucite, a rappresentare attività creative. Creative? Creazione? Creatività? Anche la creatività, variante umana e «se-colarizzata» della creazione, è legata all’inizio, al momento della nascita dell’idea, dell’invenzione, della scoperta. Scientifica come artistica, ma qui ci soffermeremo sulla creazione artistica dato il contesto della mostra. L’idea di creatività nasce nel Rinascimento, esplode nella cultura illuministica e si definisce nell’accezione odierna nell’Ottocento, fino al culto idolatrico che le viene oggi tributato.Molte cose si porebbero dire sulla creatività, ma la più rilevante nel contesto delle opere di Marina Gasparini mi sembra quella relativa al fatto che la creatività stessa è arché, inizio, principio nel senso già definito, ed è filo: è un processo che contempla l’intero svolgimento di sé stesso e non soltanto la prerogativa di un solo istante iniziale da considerare separatamente dal resto; è filo perché è un processo che si dipana come da una matassa o da un gomitolo, affine in ciò al gomitolo che Arianna porge a Téseo per farlo uscire dal labirinto. L’immagine del filo è onnipresente, dall’Antico Testamento all’Iliade e all’Odissea, come alla moderna epoca dei computer. Considerati la costanza e il senso dell’esperienza del filare e dell’intrecciar fili, non ci si deve stupire del fatto che anche il pensiero filosofico ne abbia tratto ispirazione per cercare di comprendere ed esprimere l’attività creatrice e creativa del riflettere e del filosofare: anzi, tutta l’attività del pensiero creatore potrebbe essere definita come attività di filare e intrecciare: afferrare fili di pensiero e bandoli della matassa di idee altrui, filare da sé fili autonomi e con tutti tessere e annodare e intrecciare una nuova e originale rete di riflessioni. La storia del pensiero creatore dell’inizio come filo, nonché dell’attività creatrice inizia col mito di Arianna, del quale si è detto, e continua non a caso col mito di Arachne narrato nelle Metamorfosi di Ovidio e con quello di Ananke, la necessità. Si consideri la preponderante presenza femminile nella storia della creatività, legata a tre personaggi dai nomi così simili: Ananke, Arachne, Ariadne. Come se le tre figure volessero unire le proprie forze per ribadire di fronte agli uomini il medesimo principio: anche noi donne siamo creative, di figli e di idee siamo creative, non crediate di poterci relegare nel regno della ripro-duzione per tenervi quello della produzione, non arrogatevi il monopolio della creatività astratta, di idee e pensieri, non pensate che esso sia addirittu-ra superiore alla nostra creatività che è duplice, perché è di carne e di sangue ed è di pensieri e di idee.
Torniamo al filo, filo della creatività e della mobilità, agile e flessibile, dut-tile, malleabile, morbido, aereo e libero, non costretto ancora nella cornice rigida del telaio, della cimosa o in ogni caso della forma obbligata: come non vederlo all’opera nel mobilio filato da Marina Gasparini, nello spaesaggio in cui i mobili sono disegnati sul muro dal filo di cotone nero che corre e scorre e avanza e si arrotola e si ritorce e torna indietro e intanto disegna un mobile, anzi lo scrive in corsivo, senza staccare la punta della matita dal foglio né il filo dal muro. E come non vedere la sua utilizzabilità ancora oggi, soprattutto oggi, quando rigidi e congelati modelli di pensiero e di azione incontrano potenti limiti e sembrano giunti ai loro confini, in ecologia, economia, tecni-ca, cultura, scienza, società e persino nella vita privata? Ci aiuterà forse il filo a vincere la sfida di un pensiero creativo libero e fluttuante, per un’azione di-namica, morbida, agile e colorata, da svolgere come il filo di una matassa per comporre, in astratto e in concreto, opere come quelle di Marina Gasparini?

Words, objects, threads: a philosophical reading of Marina Gasparini’s artwork

In the beginning, there was the thread, the thread of reason, or logos, the thread of thought, of discussion; imaginary, metaphorical threads. But there was also another thread in the beginning, the thread-seed-sperm (this is what sperma means in ancient Greek), which is also the thread of life in its earliest budding. Unfurling and curling up, like snakes, threads are spun and articulated, giving rise to words; words placed one after the other give rise to the line (from linum, the linen thread or yarn). The line and the word together produce text, from the Latin textum, with that ‘x’ sitting squarely in the middle to underline the intertwining of sentences. Just what do words and sentences and lines tell us? They tell us of the material world and of im-material ideas. They speak to us of things and objects – particularly objects, those solid things that are thrown in front of you (from the Latin ob-jectum) and which get in your way and clutter you up and which you have to come to terms with.

Marina Gasparini’s words are ones of a particular kind: some are made of thread, perfectly in line with what we have said; others are on objects, around objects, or inside or outside objects. Yet others are simply threads themsel-ves, soft threads passing through the little holes of ceramic containers, de-corating the white of paper pages. Words lie on objects, around objects, also telling of projects cast forward into the futureThere are sciences and discipline of the beginning, like architecture, and stories of the beginning, like all the stories of birth. The birth of children, and of ideas.

There are stories that feature the beginning as the protagonist, like architecture, and like thread: there’s one story in particular, the story of a labyrinth, in which the first architect has a famous building built which presents a problem, to which the general, collective, social solution will be provided by a thread. Hence, thread = mítos or spérma, in Ancient Greek. Mítos like thread, while mythos instead is the word. The thread of life. The thread of thoughts and the thread of history. The thread of memory and the thread of reasoning. Finding the thread, following the thread, losing the thread. The thread of a screw or a bolt. Our lives hanging by a thread. The thread of linen is the line, as mentioned before, and the line is the trace of writing (like an online discussion) and the intertwining of lines gives rise to a web and net. Take a good look at Marina Gasparini’s work: can you not see the compenetration of computer capacities with physical activities, like spinning, weaving, sewing and threading? It’s there that the experience of creative thought, of the action’s productive aspects, comes to a head.
In the beginning, there was textura but also tectura, in fact tectura first of all, as in archi-tectura. Tekton is artifice (think of techne); it’s the artisan, it’s he that makes, fabricates and produces, he that traces the outline of the building, and thus he who has the first idea and intuition, before presiding over its construction. Like in the icy interiors of non posso + esserci x te by Marina Gasparini: silent, unsettling, initial and projectual, i.e. archi-tectural. There was also an architect who was no less than the first architect, an ar-chi-architect. His name was Daedalus. And there was a myth which was the first and most ancient, the most archaic myth of all of Greek mythology: the myth of the labyrinth built by Daedalus.
There’s a thread that comes out of the gland on the abdomen of the spider (the “she-spider”, as Petrarch said and he was right, because the spider is indeed a feminine animal) and produces beautiful nets and webs, yet almost airborne, ephemeral and inconsistent. The transparent thread that pours forth from the belly of the animal is light and fragile and unsuited to representing the stability and consistency of texts/textiles. Instead it is more fitting to think of the manual production of thread and the working of threads bound together in various ways: with the loom, the crochet needle, knitting needles, to form – in Marina Gasparini’s works – sewn words, representing creative activities. Creative? Creation? Creativity? Also creativity, the human and “secularised” variant of creation, is linked to the beginning, to the moment of the birth of the idea, of invention, of the discovery. It may be scientific or artistic, but here we shall focus on artistic creation, given the exhibition context. The idea of creativity dates back to the Renaissance; it was then to explode in the culture of the enlightenment and is defined in the modern-day acceptation only in the 19th century, right up to the idolatry cult that today is bestowed upon it.

Many things could be said on creativity, but the most relevant one in the con-text of the works by Marina Gasparini would appear to be that relating to the fact that creativity itself is arché, a beginning, the starting point, in the sense of being already defined, and it’s s thread: a process that contemplates its own entire development and not just the prerogative of a single initial instant to be considered separately from the rest; it’s a thread because it’s a process that unfurls as if from a tangle or a ball, hence like the ball of thread that Ariadne gives to Teseo in order to lead him out of the labyrinth.
The image of the thread is everywhere we turn, from the Old Testament to the Iliad and the Odyssey, right up to the modern age of computers. Given the constancy and the sense of the experience of threading and weaving threads, it should come as no surprise that also philosophical thought has drawn on it for inspiration in order to try to understand and express the act of creation and of creativity in reflecting and philosophising. As a matter of fact, all the activity of creative thought could be defined as the activity of threading and weaving: grabbing onto threads of thought and finding the thread-ends of others’ ideas, spinning one’s own autonomous threads, and then all to-gether weaving and knotting and intertwining a new and original network of reflections. The history of creative thought as a beginning like a thread, not to mention creative activity, starts with the myth of Ariadne, as mentioned above, and not by chance continues with the myth of Arachne as narrated in Ovid’s Metamorphosis, and with that of Ananke: “necessity”. Just consider the preponderant female presence in the history of creativity, linked to three characters with such similar names: Ananke, Arachne and Ariadne.

As if the three figures wanted to join forces to underline the same principle before men: we women are creative too; we create both children and ideas, but don’t think you can just relegate us to the realm of reproduction so as to keep that of production all to yourselves, don’t demand the monopoly of abstract creativity, of ideas and thoughts, and don’t think that yours is in any way superior to our two-fold creativity, for ours is both one of flesh and blood as well as of thoughts and ideas.
Let us return to the thread, the thread of creativity and mobility, agile and flexible, ductile, malleable, soft, airy and free, not yet bound by the taut frame of the loom, of the selvage or at any rate of the imposed shape. We cannot but notice this at work in Marina Gasparini’s threaded furnishings, in the crooked landscape against which the furniture is drawn onto the wall with the thread of black cotton that charges ever onwards, rolling up and twisting back upon itself as it outlines a piece of furniture, or rather, it writes it onto the wall without ever lifting the tip. And how could we overlook its usabili-ty even now, especially now, when rigidly trenched models of thought and action come up against powerful limits and seem to have reached the end of the line, in ecology, economics, technology, culture, science, society and even in our own private lives? Will it perhaps be the thread that helps us to win the challenge of a free and floating creative thought, of a dynamic, soft, agile and colourful action, to be deployed like the thread of a skein to put together – both in abstract and concrete terms – works like those by Marina Gasparini?


MARCO PIERINI

in  Il denaro è un bene comune

catalogo della mostra

Musei Civici di Modena 2014

Un giardino sospeso

Dall’arte / della lana e della seta/ Italia / ebbe ricchezza lustro /civiltà

Le parole in esergo si leggono dipinte sulla cartella sovrastante una delle porte d’ingresso alla sala del Museo Civico di Modena che nel 1886 Luigi Alberto Gandini fece apparecchiare e decorare perché accogliesse l’ingente patrimonio di frammenti tessili negli anni raccolto e allora donato alla collettività. Il medesimo monito tornito dall’illuminato collezionista con moderata e sincera retorica risorgimentale può essere assunto, stemperati gli accenti patriottici, come viatico alla lettura dell’intervento di Marina Ga-sparini, il cui titolo Il denaro è un bene comune (ciascuna delle lettere che compongono la frase, ricamata, trova spazio, quasi mimetizzandosi, nelle vetrine assieme agli antichi tessuti) esplicita fin da subito uno stretto legame tra arte tessile ed economia che avrebbe certamente riscosso l’approvazione del conte Gandini. Una visione dell’economia quasi domestica, che rivendica appunto la sua radice dall’etimo greco oikos (casa, ma anche patrimonio di famiglia) e ristabilisce la sua inscindibile connessione con il lavoro, la manualità, la trasformazione della materia, il territorio.Dalle catene di ferro che attraversano la sala sotto le volte pendono, filate in cotone, piante di numerose varietà, restituite nel loro aspetto esemplare come appaiono miniate nei codici erbari del medioevo e del rinascimento, oppure cavate dal cinquecentesco hortus siccus di Ulisse Aldrovandi e mira-colosamente restituite, se non alla vita, alla morbidezza e alla misura delle loro forme originali.
Da ogni specie si estrae un pigmento, e di questo colore il corrispettivo ‘di-segno tessile’ integralmente s’intride, si tinge, a simboleggiare in maniera quasi araldica il frutto delle proprie fibre: blu l’Indigofera tinctoria, rosso il Carthamus tinctorius, arancione il più comune melograno, verde l’Iris pseu-dacorus.
Le piante sospese, nel loro aspetto fantasmatico che consente all’occhio di attraversare la sala intera senza incontrare ostacoli – sguardo che sembra alludere al taglio diacronico della raccolta, ricca di quasi un millennio di storia del tessuto – entrano in mutuo colloquio coi lacerti tessili custoditi all’interno delle vetrine, le cui preziose qualità cromatiche tutto debbono ai pigmenti estratti dalle foglie e dai fusti. Con tatto, l’installazione di Marina Gasparini pone il visitatore di fronte a un processo estremamente comples-so che parte dall’agricoltura, attraversa tutte le fasi della lavorazione della materia, poi la creazione artistica, il commercio, infine la salvaguardia, la conoscenza, l’educazione: economia, si potrebbe dire con una sola parola.Economia che è essenzialmente sistema di relazioni, interdipendenza, mu-tuo scambio, condizioni, azioni e rapporti che il filo simbolicamente rac-chiude in sé da sempre, come in altra parte di questo libro ci racconta Fran-cesca Rigotti.
L’etereo giardino dell’artista non riverbera soltanto la classificazione scientifica delle piante e il loro utilizzo in campo artigianale e industriale, ma evoca immediatamente anche la presenza dominante del regno vegetale nell’iconografia dell’arte tessile a ogni latitudine e in ogni tempo. Natura che, in quanto antropizzata, non può sottrarsi infine dal divenire paesaggio, ele-mento costitutivo della nostra vita quotidiana prima ancora che schermo su cui posare lo sguardo. A questo aspetto è maggiormente rivolto il grande libro di stoffa che completa l’installazione, nelle cui pagine le immagini si ac-compagnano a frasi di celebri economisti come Bernardo Davanzati e Stuart Mill. Se ne estrae, a guisa di explicit, una sentenza di François Quesnay an-cora attualissima, sebbene risalente al 1768, e che oggi dovremmo avere la forza e l’intelligenza di estendere dal mondo della natura a quello dell’arte e del patrimonio culturale: L’aria che respiriamo, l’acqua che attingiamo al torrente e tutti gli altri beni o ricchezze sovrabbondanti e comuni a tutti gli uomini non sono commerciabili: sono beni e non ricchezze.

A hanging garden

From the art / of wool and silk/Italy / gained wealth, lustre /and civilisation

The words of the epigraph are painted on a panel above one of the entrances to the room in the Museo Civico in Modena which, in 1886, Luigi Alberto Gandini had prepared and decorated in order to house his huge collection of textile fragments, which over the years he had compiled and then donated to the public. The same reminder worded by the enlightened collector, with his moderate yet sincere Risorgimento rhetoric, may be taken – patriotic fer-vour aside – as a viaticum for an interpretation of Marina Gasparini’s inter-vention, the title of which Il denaro è un bene comune (Money is a common good, of which each letter making up the sentence is embroidered, finding its own space – or almost camouflaging – amidst the ancient fabrics), made explicit right from the start through the close link between textile art and economics which would undoubtedly have met with the approval of Count Gandini. Such a domestic vision of the economy, claiming back its roots from the Greek oikos (home, but also family heritage) and restating its innate connection with work, manual labour, the transformation of materials, of matter and territory. Cotton threads hang from the iron chains suspended across the room, bene-ath the vaults, depicting numerous varieties of plants, their exemplary aspect reflecting the miniatures to be found in medieval and renaissance herbaria, or taken from the 16th-century hortussiccus by Ulisse Aldrovandi and mira-culously restored, if not to life, to the softness and measure of their original forms. From every species, a pigment may be extracted, and the correspon-ding ‘textile design’ is then imbibed, dyed with this colour, symbolising the fruit of its fibres in almost heraldic terms: the blue of the indigofera tinctoria, the red of the carthamus tinctorius, the orange of the more common pome-granate, and the green of the iris pseudacorus. In their ghostly appearance, which allows the eye to cross the entire room without coming up against obstacles – a gaze which seems to allude to the diachronic cut of the collection itself, with almost a complete millennium of textile history – the hanging plants converse with the fabric samples lying in-side the vitrines, of which the precious chromatic qualities are created than-ks to the pigments extracted from the leaves and stems of those plants. Ma-rina Gasparini’s installation tactfully places the visitor before an extremely complex process which starts out from agriculture, crossing all the working stages of materials, right up to the stage of artistic creation, trade, and lastly the fabrics’ safeguarding, study and educational use: in a word, economics. Economics being essentially a system of relationships, interdependence, mutual exchange, conditions and actions that the thread has always symbo-lically summed up, as explained elsewhere in this publication by Francesca Rigotti.
The artist’s ethereal garden does not only reflect the scientific classification of the plants and their use in the field of craft and industry, but also im-mediately evokes the dominant presence of the vegetable kingdom in the iconography of textile art throughout the world and throughout the ages. A form of nature which, being humanised, ultimately cannot deny its be-coming landscape, a key element of our everyday lives, and a backdrop to many of the scenes on which we cast our gaze. This aspect is addressed more clearly by the great fabric book which completes the installation, the pages of which feature images along with quotes from renowned economists like Bernardo Davanzati and Stuart Mill. By way of example, we might pick out one by François Quesnay which is still highly relevant even though it dates back to 1768, and which today we should have the strength and intelligence to extend from the world of nature to that of art and our cultural heritage: The air we breathe, the water we draw from the river and all the other overa-bundant goods or riches common to all men are not saleable: hence they are common goods and not riches.


SOSEI SATO

on  Asahi AIR Review 2016

The charm of Marina Gasparini  is her freedom

She is an artist who loves playing with words: seeing the connections between words like “text” and “textile”. Normally, language is systematized by categorizing perceptions of the world. However, she quickly changes direction just a moment before she “grasps” something, and carries on producing work while being inspired continuously by the things surrounding her, even when she is lost in translation.

To be honest, her ideas, which seemed like word games, sometimes lost me when we discussed them. Nevertheless, from “rice cultivation” which was one of the concepts of Asahi AIR 2016, she was led to the Italian word for rice, “riso”, which also means “laughter”. Then, she found the smiling Japanese “Okame” masks interesting, and set up her project to sew three-dimensional self portraits into them, playing with the idea of the anonymity of masks. That was an interesting and original process.

But her true charm resides in her craft-work. Her free flying and conceptually unbound thoughts were, by sewing, knitting and hardening the material by hand, almost unconsciously arranged. Her performance work “Riso Rosa Blessing” changed Kamado Shrine into a complete different space, as if she were threading together all the key words that had come to her during her stay in Omachi. The two dimensions – text and textile – and her style of going back and forth between those words kept her thread hearth exhibition space full of free inspiration and the warmth of hand craft-work.

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VALERIO DEHò

Librobianco.

li mondo comincia con un libro. Speriamo che finisca allo stesso modo. La vita è un racconto, anzi molti racconti se qualcuno è fortunato e riesce a dare un senso al proprio tempo con molte storie.

Qualsiasi cosa facciamo, ascoltiamo, sentiamo, c’è sempre un libro pronto per raccontarla. Anche se non lo sappiamo, anche se quel libro sarà il libro che non abbiamo mai letto. Non abbiamo molte certezze su cui edificare la nostra speranza, il libro è una di queste.

Perché un artista visivo allora mette sotto forma di libro il proprio lavoro? Forse per una necessità di verità, per dare una forma sicura e riconoscibile all’evanescenza dell’arte. Scripta manent e non solo oggi anche domani e domani I’ altro. Le parole si snocciolano con i loro significati abituali, con le loro ellissi, con i fraintendimenti che danno sostanza al vero. Un diario per marcare il tempo, dei disegni per marcare lo spazio.

Questa l’illusione che ci riempie di una visione che non avevamo. Lo spazio del vivere non sempre coincide con quello dell’abitare. Eppure Marina tenta una difficile equazione. Il suo “libro bianco” è una denuncia d’esistenza. Ricorda “L’inserzione di una casa che non voglio più abitare” di Bohumil Hrabal . Con discrezione il suo libro parla di un ordine mentale severo quanto casuale. Accanto al disegno di rigore progettuale apre una crepa nel quotidiano. Ma la parola non precede né smentisce l’immagine. Le vive accanto, lasciando in sospeso ogni inizio e ogni fine in un tempo azzerato dalla sua circolarità.

Librobianco  (White Book).

The world begins with a book. Hopefully it will end in the same way. Life is a tale, actually many tales if somebody is lucky enough to have his/her life graced by many stories told. For whatever we do, listen to, feel, there is always a book ready to tell it. Even if we do not know it, even if that book is the book we have never read. We have not many certainties to build our hope upon, the book is one of the few.  Hence why does a ‘visual artist’ shape his/her work as a book? Perhaps for a need of truth, to cast in a safe and recognizable object the evanescence of art. Scripta manent, not just today but tomorrow and the day after tomorrow too. The words unfold their usual meaning, by means of their ellipses, with those misunderstandings that substantiate the truth in the real. A diary to mark the time, the drawings to mark the space.  This is the illusion that depicts a vision we haven’t got. To live and to inhabit not always coincide within the same space. Never the less Marina tries to match these odd ones.   Her ‘White Book’ is a life that claims its existence. It reminds us of “An Advertisement for the House I Don’t Want to Live in Anymore ” by Bohumil Hrabal.  Her book speaks discretely about a mind set that is organized both strictly and randomly  at the same time. Whereas the drawing is rigorously planned it opens a breach on the everyday life. The words neither anticipate nor contradict the images, though. They live next to each other, suspending all their beginnings and ends in a dimension where the time is zeroed by its circularity. 


MASSIMO PULINI

dal catalogo: Profili del mondo

Il racconto naturale e l’umano paesaggio

Lidea di un disegno tracciato nell’aria, come una tela di ragno sospesa tra due rami o come la scia di un aereo, di un ricamo sfuggito alla tela o di un tatuaggio senza corpo, sta a monte di una lunga ricerca di Marina Gasparini. Il tema dei Profili del mondo, che la Biennale Disegno si è data in questa edizione, si sposa doppiamente con l’opera dell’artista romagnola, dato che la sua indagine, oltre a frequentare i perimetri delle cose, insiste su un alfabeto di tavole sinottiche che innerva un personale sistema di catalogazione. Una matrice storica e una passione per il linguaggio della natura, un tramando generazionale di gesti e un fascino verso l’irregolare, convergono in questo filamento ammaccato e virtuoso, frutto di una paziente e raffinata tramatura della forma. Riuscire a inamidare un disegno per farlo divenire un’esile ma tenace scultura, equivale a scommettere sull’eliminazione di ogni residuale dipendenza dal proprio segno da un supporto, una vocazione di leggerezza e insieme una affermazione di fulgida resistenza.

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ROBERTO TERROSI

dal catalogo:  Nuke Mars,   Galleria Mazzoli, 2023

Nuke Mars/Marx

Se fosse un romanzo, questa storia comincerebbe con un viaggio in India, oppure con alcune dichiarazioni dell’eccentrico miliardario Elon Musk. Oppure no, dovrebbe cominciare con la storia di una sensitiva svizzera che andava in trance, oppure si potrebbe andare ancora indietro, al Settecento, quando Mesmer conduceva i suoi esperimenti sul magnetismo. Ma che rapporto hanno tutte queste cose tra loro? Che cosa le unisce? Qual è il filo del discorso che le attraversa e le cuce insieme? E poi se torniamo a leggere il titolo della mostra vediamo che esso è “Nuke Mars”, più o meno la frase pronunciata da Elon Musk, che in televisione ha detto: “I want to nuke Mars”. Allora in un certo senso il discorso ruota intorno a Marte e al nucleare. Abbiamo così introdotto i temi di questa vicenda. Possiamo allora tornare alla permanenza in India della nostra artista, per una residenza artistica, su invito di una fondazione. Marina Gasparini ha notato la presenza di una bottega di ceramisti e ha pensato che avrebbe potuto rivolgersi a loro per la produzione di alcune ceramiche, ma con quale soggetto? Cambiamo allora scena perché andiamo a trovarci nella Ginevra fin du siecle in cui vive Catherine Élise Müller, che poi diverrà nota come Hélène Smith, e in cui vanno di moda le sedute spiritiche in cui vengono evocati degli spiriti. Ora, da un punto di vista antropologico e anche psicologico, è interessante notare che per far parlare lo spirito evocato è necessario costituire una dimensione impersonale. Come si ottiene questa impersonalità? In genere nella seduta spiritica, si ottiene in primo luogo attraverso un’azione collettiva la cui volontarietà non può essere imputata ad alcuno in particolare; l’altra maniera è invece quella di ricorrere a una persona in particolare che fa da tramite con l’aldilà per le sue capacità medianiche. Parliamo cioè della trance. Come notava giustamente Ioan Lewis in un suo storico saggio (Le religioni estatiche, tr.it. Roma, 1978) queste pratiche riguardano soprattutto le donne, specialmente in culture con una forte connotazione patriarcale, in cui la donna subisce forme di costrizione e di repressione sia fisiche che psicologiche. Infatti, una caratteristica della trance è la desoggettivazione, per cui la medium può sottrarsi alla responsabilità della parola, così come nel sintomo isterico essa si sottrae alla responsabilità di tutto ciò che tale sintomo implica. Nel momento in cui la soggettivazione di una donna, non essendo accompagnata da alcun potere diviene una forma di oggettivazione assoggettante, il sintomo nevrotico o la trance divengono modi di evadere da questo assoggettamento proprio per il tramite dell’oggettivazione stessa, dal momento che essa agisce in quanto semplice corpo, o è agita da una presenza spiritica da cui è invasata. C’è però sotto questo aspetto una significativa differenza tra l’oggettivazione somatica del sintomo nevrotico e l’oggettivazione psichica operata dalla presenza spiritica. Nel primo caso essa, riducendosi a corpo, trasforma ogni possibile comportamento volontario in una contingenza naturale, che comporta una medicalizzazione del sintomo, in modo tale che essa si pone al gradino più basso della gerarchia sociale in quanto mero corpo malato (nuda vita). Diversamente nel channeling o nella trance, la desoggettivazione cede il posto a uno spirito di cui la medium pretende di essere un semplice megafono, fatto salvo però il fatto che dalla sua bocca esce una voce importante che ha un potere. Quindi nella trance la donna assoggettata, non solo si deresponsabilizza rispetto alle parole che escono dalla sua bocca, ma si carica anche di potere. Catherine Élise Müller nasce nel 1861 a Martigny, ma cresce e compie i suoi studi a Ginevra. La sua giovinezza è stata vagliata e descritta minuziosamente dallo psicologo svizzero Théodore Flournoy. Era figlia di un commerciante ungherese ed era quindi una “straniera”, condizione questa che ha importanza nella storia delle religioni, anche in relazione alla possessione. Si pensi ad esempio alla xenia dionisiaca (Marcello Massenzio, 1969) in cui le baccanti esprimono una forma di estasi femminile tramite il vino che ne scioglie la persona come struttura sociale in una società, in cui la donna è sostanzialmente reclusa o imprigionata in casa, in una condizione di segregazione di genere. Anche Catherine dichiarava di sentirsi imprigionata. E’ anche interessante che il padre fosse uno stupefacente poliglotta e che Catherine da bambina indulgesse nella glossolalia (parlare una lingua inventata) imitando le lingue parlate dal padre. Catherine amava, ma non aveva la pazienza di apprenderle, così come non aveva la pazienza di studiare, tanto che fu rimandata a scuola. Forse Catherine nutriva un senso di rivalsa sociale sia per la sua xenia sia per i suoi insuccessi scolastici. Forse era in cerca di una scorciatoia per il successo. In famiglia era la madre ad interessarsi al soprannaturale avendo avuto delle visioni, cosa che conferma la preminenza femminile di questi fenomeni. Quando Catherine comincia a  partecipare alle sedute spiritiche ha subito successo, tanto che le partecipanti al gruppo raddoppiano. Era l’occasione che stava aspettando. Era il 1892, un anno dopo la morte di Helena Blavatsky, leader del movimanto teosofico, di cui Catherine riprese il nome diventando Hélène. Rispetto alla trance femminile come reazione alla sottomissione è sintomatico che lei dichiara di essere la reincarnazione di aristocratiche come Maria Antonietta o una principessa Hindu, ma nella trance sono sempre spiriti maschili importanti a parlare. Victor Hugo è il suo primo spirito guida ma poi arriva un tale Leopold che poi si rivelerà essere Cagliostro. Ma a un certo punto entra in contatto con dei marziani, che le spiegano il loro linguaggio e lei vede Marte. L’India della principessa hindu era patria delle teorie sulla reincarnazione sfoggiate dalla Blavatsky, ma a anche un luogo esotico, un’eterotopia, un fuori, come la patria paterna. Questo fuori diventa  utopico con Marte. La città dei marziani è una specie di Atlantide, con guglie e giardini. Lei disegna questa città e vi aggiunge una lingua di sua invenzione. Si torna così alla glossolalia ma in forma scritta. Théodore Flournoy pubblicò il libro su Hélène nel 1900. lo stesso anno dell’Interpretazione dei sogni di Freud. Flournoy era rinomato, tanto che Jung, nell’introduzione dell’edizione inglese, racconta che si appoggiò a Flournoy per rompere con Freud. Il suo libro divenne un classico della psicologia, e non poteva sfuggire a Breton. È possibile che i panorami “alieni” dipinti da Tanguy o da Ernst non siano immuni dall’influsso di Hélène. Tuttavia il libro cadde poi nell’oblio e con esso anche i panorami marziani di Hélène Smith. In Italia era pressoché sconoosciuto. È stato pubblicato solo nel 2016 dalla Castelvecchi. Hélène è così tornata a circolare negli ambienti artistici italiani. Inoltre, nel 2022, alla Biennale di Venezia nel Padiglione Centrale si espongono i suoi disegni. Hélène così ritorna nell’alveo dell’arte in cui l’avevano posta i surrealisti. E allora torniamo come in un film alla scena di partenza in cui Marina in India come una sorta di reincarnazione Hindu di Hélène ripensa a lei per delle opere ispirate al mondo di Marte. Un cerchio si chiude ma non si chiude così la nostra storia. Perché resta un altro cerchio da chiudere, quello di Elon Musk che va in televisione a dire che bisogna bombardare Marte. Che ragione aveva Hélène di interessarsi a Marte? Negli anni in cui Hélène cominciava la sua carriera di medium, Schiaparelli pubblicava le sue tesi sui canali di Marte che cambiavano e si riformavano, destando l’attenzione internazionale. Nella traduzione inglese però ci fu un problema: il termine italiano “canale”, che può essere tradotto sia con “channel”, che con “canal”, venne tradotto troppo letteralmente con “canal”, che indica i canali artificiali. Questo suggerì ai lettori di lingua inglese che Schiapparelli aveva visto canali artificiali su Marte e che dunque vi fosse una civiltà. Da qui venne la popolare idea dei marziani che sopravvisse fino ai tempi della celebre trasmissione radio di Orson Welles, La guerra dei mondi, in cui della gente si riversò nelle strade credendo che fosse realmente in corso un attacco marziano. Era il 1938. Orson Wells disse: “Avevamo sottovalutato l’estensione della vena di follia della nostra America”. Ma solo un anno più tardi ben altra follia doveva sprigionarsi con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Tutte le potenze parlavano di pace dopo la Prima guerra mondiale ma sapevano che non sarebbe durata, perché, come capì benissimo Keynes in Le conseguenze economiche della pace (1919) era troppo umiliante. Così tutte le potenze si preparavano alla guerra e guerra fu. Molti sognavano un’arma finale, come disse Goebbels, una Wunderwaffen, un’arma sbalorditiva, ma fu costruita in America, da un gruppo di scienziati diretto da Oppenheimer. Quell’arma siglò con un’inutile ma scenografica strage di civili la fine del conflitto mondiale. Sì entrava così nell’era atomica in cui il nuovo nemico era la Russia, non solo perché era il vecchio nemico geopolitico dell’impero inglese, che contrapponeva un imperialismo del nomos della terra rispetto a quello inglese del nomos del mare, ma perché era la guida del comunismo mondiale. La nuova guerra era una guerra di sistema fondata sulla lotta di classe, capitalisti contro forza lavoro, borghesi contro proletariato. Rosso era il colore del pianeta marxista, e così nella fantascienza il pianeta rosso divenne il pianeta comunismo e l’invasione dei marziani veniva confusa con l’invasione dei marxiani. Negli anni ‘50 si assiste a tutta una produzione di film di fantascienza basati sul pianeta rosso e sulle sue terribili invasioni che minacciavano puntualmente la fine del mondo. L’ansia suscitata dalla guerra fredda, non è più la malinconia per la fine di un mondo: quello dell’aristocrazia. In gioco non c’è più la fine di un mondo bensì la fine del mondo, l’apocalisse. Al tema dell’apocalisse Ernesto De Martino, dedicò il suo ultimo libro La fine del mondo (1977), dove parlò di crisi della presenza. De Martino inoltre analizzò anche un fenomeno di possessione che resisteva nelle tradizioni folkloriche del meridione italiano: il tarantismo e che riguardava ancora una volta il femminile, considerato all’interno di oppressive società patriarcali rurali. Ma De Martino prospetta una concezione che va oltre l’individualismo metodologico della psicologia del profondo. De Martino non cade nella trappola dell’individualismo borghese e invece si pone nella prospettiva di attori che si interessano a un mondo comune, in un Mitsein che minaccia sempre di crollare attraverso la destorificazione e cioè la perdita di senso del divenire, e che deve perciò essere sempre puntellato attraverso atti riparatori. La trance allora non è solo una crisi individuale ma un atto riparatorio per sostenere un mondo comune. In essa la medium segue dinamiche personali ma anche comunitarie. Il fatto che la società fin du siècle avesse tanto bisogno di medium va messo in relazione allo spengleriano senso di minaccia per la stessa civiltà occidentale che veniva avvertita dall’intellighenzia europea. Le visioni del pianeta rosso dunque esprimono una ricerca di un mondo alternativo all pianeta Terra.

L’America vedeva nel pianeta rosso una minaccia al proprio dominio, dall’altra parte in Russia invece c’era una tradizione diversa. Nella Russia rivoluzionaria troviamo due romanzi di fantascienza. Uno prospetta una visione negativa di Marte, ma a causa della sua lettura in chiave mitologica legata al dio della guerra. Il titolo del romanzo è Aėlita di Aleksej Nikolaevič Tolstoj, da non confondere però con Lev Tolstoj. La società marziana viene vista come militarista e dittatoriale. Il protagonista s’innamora dell’algida e bella regina marziana e marziale Aėlita salvo accorgersi, grazie al suo fedele amico, che lei è una spietata dittatrice e allora si rivolta contro di lei e spinge anche la popolazione a rivoltarsi. Il romanzo pubblicato nel 1922 è un preveggente monito contro la seduzione del militarismo. L’altro romanzo è del 1906 e s’intitola La stella rossa. Ora, è fin troppo chiaro, che la stella rossa è il simbolo delle armate rivoluzionarie socialiste. E quindi l’intento propagandistico appare chiaro fin dal titolo. In questo libro il nostro eroe scopre che su Marte c’è una società egualitaria, pacifica e collettivista. Insomma si tratta di una vera e propria utopia, un po’ simile a quella immaginata da Hélène Smith. Questa immagine della società collettivista si incastra perfettamente con l’incubo americano la minaccia rossa. Quindi si capisce bene come Marte potesse rappresentare un sogno per un popolo che ha patito lo sfruttamento e la sottomissione e potesse invece essere un incubo per gli altri e cioè per un popolo padrone e vincente. 

Marina Gasparini però mi ha raccontato anche un altro particolare. Lei cominciò a pensare a Marte come crocevia di tante metafore diverse ma connesse, già da prima del suo viaggio in India. Marina pensava già di fare una mostra ai Bagni di Mario di Bologna, una cisterna cinquecentesca ormai asciutta che presenta un panorama desertico un po’ after bomb, proprio in un momento in cui cominciava a circolare sui media la notizia che Marte fosse stato un tempo un pianeta con l’acqua in superficie similmente alla terra, acqua che poi sarebbe in parte evaporata e parte trattenuta da un’enorme area di permafrost esistente in particolare sotto le calotte polari. Se Marte poteva essere un tempo la metafora dell’utopia sociale comunista, oggi, così come Marte si è ridotto a un grande deserto, si è desertificata anch’essa. E questo discorso vale poi in particolare per Bologna, un tempo stella rossa del comunismo italiano, ma oggi ridotta a una zolla arida, come il pianeta rosso. Siamo così giunti al chiarimento delle implicazioni della visione di Marte come metafora politica, ma ci siamo dimenticati di Elon Musk. Elon Musk non può essere di certo annoverato né tra i marziofili marxisti né tra i marziofobi liberisti. Sicuramente è distante anni luce dal marxismo, avendo manifestato simpatie per Trump, anche se sappiamo che Elon Musk come altri miliardari manifesta simpatie per una filosofia nota come longtermism e per il suo ambito di riferimento etico noto come effective altruism. In particolare Musk si interessa all’idea che sul lungo termine la crisi ecologica possa comportare un rischio esistenziale per l’umanità. Ricapitolando, se i decadenti avvertivano l’inquietudine per la caduta della civiltà occidentale sotto la pressione della rivoluzione industriale, se negli anni ’50 e nei decenni a seguire la società di massa manifestava la propria angoscia per la minaccia di un Armageddon nucleare, oggi la situazione non è migliorata. Infatti oggi non c’è solo la paura per la crisi climatica e per l’intelligenza artificiale, ma c’è anche la paura per la fine della civiltà occidentale e infine in tempi recenti si è anche riaffacciata quella per l’ecatombe nucleare. Ora, se non si capiscono le preoccupazioni sulla lunga distanza di tale pensiero non si capiscono le ragioni profonde dell’interesse di Musk per Marte. Musk accoglie varie di queste preoccupazioni anche se non tutte. Si pone quindi il problema di lavorare a un piano di fuga, o quantomeno un piano B per non soccombere a eventuali derive disastrose. Nella letteratura di fantascienza ormai è addirittura divenuta familiare l’idea di grandi navicelle spaziali che solcano lo spazio siderale cariche di esseri umani in ibernazione da risvegliare dopo tempi interstellari. Tuttavia la fantascienza ha rinunciato da tempo a lavorare sull’ipotesi di trasferimenti in massa su pianeti vicini. Anche perché l’esplorazione spaziale ha reso prive di credibilità tutte le ipotesi di pianeti vicini semplicemente abitabili. Nessuno crede più a canali su Marte costruiti dai marziani, anche se non sono del tutto spariti quelli che cercano testimonianze archeologiche di un’antichissima civiltà marziana che sarebbe fuggita da Marte nel momento in cui il pianeta, un tempo blu, ha cominciato a inaridirsi, approdando sulla Terra e dando avvio alla storia umana. Si dice che l’acqua, un tempo abbondante, sia in gran parte evaporata, ma che ce ne sia ancora molta ghiacciata specialmente sotto le calotte polari intrappolata nel permafrost. A questo punto arriva l’idea di Musk che è quella di lanciare delle bombe nucleari ai poli per far sciogliere il ghiaccio sotto i poli e innescare un processo a catena che dovrebbe addirittura riportare un’atmosfera simile a quella terrestre su Marte. Oggi infatti la temperatura è per lo più molto bassa, ma all’equatore essa può raggiungere i 25 gradi celsius durante il giorno e questo significa che, potendo innescare un effetto serra, anche le notti diverrebbero più miti. Insomma, una volta bombardato il pianeta rosso tornerebbe ad essere blu come si immagina che sia stato un tempo. Anche la pressione atmosferica potrebbe innalzarsi pur restando sempre di gran lunga inferiore a quella terrestre. Insomma il sogno di rendere Marte abitabile è molto forte e come nelle strategie di impresa per farlo partire vengono enfatizzate tutte le possibilità positive anche se sono forse insufficienti e scarsamente probabili. Molte volte i progetti tecnologici e scientifici vengono nutriti di aspetti e da spinte emotive finanche inconsce che sono ben lungi dall’essere razionali. Tesla il “mago” dell’elettricità che ha ispirato la visionaria impresa e ascesa di Elon Musk diceva di parlare con i marziani o con i venusiani via radio. Si trattava in realtà molto presumibilmente di un fenomeno di psicofonia, o in inglese EVP che sta per Electronic Voices Phenomena, ben noto agli studiosi del paranormale ma anche agli psichiatri. Tesla condivideva con Hélène Smith l’inclinazione alla pareidolia, che è la tendenza a trovare delle forme nell’informe, o all’apofenia, che è un fenomeno simile, consistente nell’attribuire schemi percettivi noti a elementi casuali, che vanno a costituire connessioni laddove non ce ne sono. Diciamo pure che la pareidolia riguarda più un’inclinazione estetica e l’apofenia un’inclinazione più teoretica, in quanto più rivolta alla gnoseologia. Il punto è che queste non sono solo delle inclinazioni devianti di personalità geniali ma instabili come Nikola Tesla, ma sono degli scantinati della razionalità, in cui essa si mescola all’irrazionale e persino al fantastico se non addirittura al delirio, che costellano la storia del pensiero scientifico, che vale la pena ricordarlo emerge dalle brume dell’astrologia, della magia e dell’alchimia. Se leggiamo i naturalisti rinascimentali come Bernardino Telesio, che sosteneva che la natura andava studiata iuxta propria principia e che parlava pochi decenni prima della comparsa delle teorie di Galileo, capiamo che c’è ancora molto di magico e di alchemico nella sua concezione della natura e la stessa cosa vale per Giordano Bruno, che era coevo di Galilei (vissero per un periodo a pochi chilometri di distanza tanto che potrebbero anche essersi incontrati in quel di Venezia). D’altronde anche Galileo non disdegnava di trarre guadagno dall’attività di astrologo, scrivendo oroscopi a pagamento. Isaac Newton praticava l’alchimia e venne assunto alla zecca di stato come esperto di oro. Ci raccontano che la scienza emerse dalle nebbie di tali dottrine ma poi se ne liberò. Tuttavia la storia della scienza ci racconta un’altra verità: l’irrazionalità non ha mai cessato di tallonare la scienza e di mescolarsi ad essa. Dopo l’alchimia infatti vennero gli studi sull’elettricità. L’elettricità era percepita come una sorta di fluido magico, ora invisibile e ora visibile in fenomeni luminosi, che passava attraverso i corpi. Venivano fatti spettacoli con luminescenze elettriche che avevano del prodigioso fino ad arrivare allo stesso Tesla che si esibiva in performance con luminescenze sul proprio corpo sfruttando fenomeni di induzione elettrica. La personalità stessa di Tesla emerge da questo retroterra culturale di contaminazione e indistinzione tra pratiche scientifiche, prodigi magici e paranormali. Si pensi anche all’idea di riportare in vita corpi morti che sta alla base del Frankenstein di Mary Shelley, e che si basa su teorie in circolazione alla sua epoca. Da questo confine tra scienza e irrazionale emerge anche il cliché dello scienziato pazzo. Ancor più marcatamente questo aspetto si presenta nel caso del magnetismo. Si pensi solo a Franz Anton Mesmer e al mesmerismo che da lui prende il nome e che ebbe una tale diffusione nel mondo dell’occultismo che, ancora nell’Italia del secolo scorso, nelle sedute spiritiche, la medium veniva spesso chiamata “la magnetizzata”. Si dice che Mesmer venne criticato dalla comunità scientifica, tuttavia il mondo naturale ancora nel XIX secolo era percepito come carico di elementi mistici, spirituali e irrazionali che erano stati trattati dai naturalisti del rinascimento. Con il romanticismo si diffuse tra le migliori menti della filosofia tedesca come Schelling e Schopenhauer la Naturphilosophie, che era una filosofia della natura che mescolava istanze scientifiche, spiritualiste e mistiche relativamente alla natura stessa. Infine anche la radioattività si fece strada in mezzo a bizzarre teorie e fascinazioni immaginifiche ad esempio legate all’uso dei raggi X, legate anche in questo caso ad ambienti teosofici. Lo stesso Röntgen chiamo questi raggi “X” perché erano misteriosi e non sapeva come definirli. In conclusione possiamo desumere due discorsi che si intrecciano in questa metafora del bombardamento di marte e della sua immaginosa, ma anche metafisica civiltà, evocata dalle ceramiche, a loro volta riferite ai disegni di Hélène  Smith. Il primo ci ricorda che siamo sospesi di fronte alle tematiche della fine, della crisi, dell’apocalisse in una dimensione in cui la scienza non riesce a liberarsi dal suo intreccio con l’irrazionale, la seconda invece più ironica e politica sembra suggerire l’idea che forse anche il pianeta rosso della politica, un tempo ricco di acque e oggi inaridito, abbia bisogno di un bombardamento affinché le sue acque nascoste nei ghiacci possano tornare a portare vita, e per fare ciò serve un atteggiamento medianico e visionario capace di prospettare nuovamente città utopiche, da cui i marziani/marxiani potranno tornare a parlare il loro avveniristico linguaggio. In un certo senso si potrebbe dire “Nuke Marx”, ma non per distruggerlo, bensì, al contrario, per farlo rivivere. Comunque la si pensi l’opera di Marina Gasparini è un’opera che non si limita alle ceramiche, perché queste ceramiche sono come i diodi di una macchina di pensiero carica di input e di considerazioni, che ripropone l’opera nel suo complesso come macchina per pensare o ancora di più per meditare su questi tempi difficili della nostra epoca. 

Nuke Mars/Marx

by Roberto Terrosi

In a novel, this story would begin with a trip to India, or with certain statements uttered by the eccentric billionaire Elon Musk. Or not. Maybe it should start with the story of a Swiss medium who went into a trance. Or it could go back still further, to the 1700s, when Mesmer conducted his experiments on magnetism. But what is the relationship between all these things? What holds them together? What is the thread that crosses through and ties them to one another? And then, if we go back to read the title of the exhibition, we see that it is “Nuke Mars,” more or less the phrase spoken by Elon Musk on television: “I want to nuke Mars.” So in a certain sense the discussion centers on Mars and nuclear arms. We have thus introduced the themes of this episode. And we can go back to the time spent by our artist in India, for an art residency, invited there by a foundation. Marina Gasparini noticed the presence of a potters’ workshop, and she thought she might turn to them for the production of some pieces in ceramic. But what would be the subject? Now the scene shifts, and we find ourselves in fin de siècle Geneva, the place of residence of Catherine Élise Müller, who became known as Hélène Smith, where seances to summon spirits were much in vogue. Now from an anthropological and also psychological standpoint it is interesting to note that to make the contacted spirit speak, it was necessary to construct an impersonal dimension. How was this impersonal condition achieved? Usually in the seance it was obtained first of all through a collective action whose will could not be attributed to one person in particular; the other method, instead, was to rely on one particular person to act as a go-between with the afterlife, having the abilities of a medium. We are talking, then, about the trance. As Ioan Lewis correctly pointed out in his historic essay (Ecstatic Religion, 1971), these practices involved mostly women, especially in cultures with a strong patriarchal character, in which women undergo forms of both physical and psychological coercion and repression. In fact, one characteristic of the trance is desubjectivation, by which the medium can be exempted of responsibility for speech, just as in the symptom of hysteria the subject is exempted of responsibility for anything implied by that condition. In the moment in which the subjectivation of a woman, not being accompanied by any power, becomes a form of subjugating objectivation, the neurotic symptom or the trance become the ways to escape from this subjugation precisely by way of the objectivation itself, since the subject is acting as a simple body, or is activated by a spiritic presence by which it is possessed. Under this aspect, however, there is a significant difference between the somatic objectivization of the neurotic symptom and the psychic objectivization enacted by the spiritic presence. In the first case, reduced to a body it transforms any possible voluntary behavior into a natural contingency, which implies a medicalization of the symptom, in such a way that it is placed on the lowest rung of the social ladder, being a mere diseased body (naked life). Diversely, in channeling or trance the desubjectivation yields to a spirit of which the medium claims to be a simple megaphone, except for the fact that from its mouth an important voice is emitted, which has a power. Therefore in the trance the subjugated woman is not only exempted from responsibility for the words that come out of her mouth, but is also endowed with power. Catherine Élise Müller was born in 1861 in Martigny, but she grew up and went to school in Geneva. Her youth has been painstakingly examined and described by the Swiss psychologist Théodore Flournoy. She was the daughter of a Hungarian merchant and was therefore a “foreigner,” a status that has importance in the history of religions, also in relation to possession. Just consider the example of the Dionysian xenia (Marcello Massenzio, 1969), in which the maenads expressed a form of feminine ecstasy through wine, which dissolves the person as a social structure, in a society where women were substantially imprisoned in the home, in a condition of gender segregation. Catherine too stated that she felt like a prisoner. It is also interesting to note that her father was an amazing polyglot, and that as a child Catherine indulged in glossolalia (speaking in an invented language), imitating the languages spoken by her father. Catherine loved those languages but did not have the patience to learn them, just as she lacked the patience for study, so much so that she was left back in school. Perhaps Catherine nurtured a sense of social compensation, with respect to her xenia and her poor scholastic performance. Perhaps she was seeking a shortcut to success. In the family it was her mother who was interested in the supernatural, having had visions, confirming the female prevalence in such phenomena. When Catherine began to take part in the seances she gained immediate results, and in fact the number of participants in the group doubled. She had been waiting for this opportunity. The year was 1892, one year after the death of Helena Blavatsky, leader of the Theosophy movement, and Catherine borrowed her name, becoming Hélène. With respect to female trances as a reaction to submission, it is symptomatic that she claimed to be the reincarnation of aristocratic women like Marie Antoinette or a Hindu princess, but the spirits that spoke in her trances were always important men. Victor Hugo was her first spirit guide, but he was followed by a certain Leopold, who then turned out to be Cagliostro. At a certain point she made contact with Martians, who explained their language, and she saw Mars. The India of the Hindu princess was a land of theories on reincarnation propagated by Blavatsky, but also an exotic place, a heterotopia, an outside, like her father’s homeland. This outside became utopian with Mars. The city of the Martians is a sort of Atlantis, with spires and gardens. She drew this city, and added a language of her own invention. This was thus a return to glossolalia, but in written form. Théodore Flournoy published his book on Hélène in 1900, the same year as Freud’s The Interpretation of Dreams. Flournoy was renowned, and in fact Jung, in the introduction to the English edition, states that he relied on Flournoy to make a break with Freud. The book became a classic of psychology, and it could not escape the attention of Breton. It is possible that the “alien” panoramas depicted by Tanguy or Ernst were not immune to Hélène’s influence. Nevertheless, the book was later forgotten, as were the Martian vistas of Hélène Smith. In Italy it was practically unknown. It was not published until 2016, by Castelvecchi. Hélène thus returned to circulate in Italian artistic circles. Furthermore, her drawings were shown in 2022, in the central pavilion of the Venice Biennale. Hélène thus reappeared in the world of art, where she had been placed by the Surrealists. Hence, as in a film, we return to the opening scene in which Marina is in India, like a sort of Hindu reincarnation of Hélène, and is reminded of her, making works inspired by the world of Mars. A circle thus comes to a close, but our story does not. Because there is still another circle to be closed, that of Elon Musk who goes on television to say that Mars should be bombed. Why was Hélène interested in Mars? In the years when Hélène was beginning her career as a medium, Schiaparelli published his theses on Martian canals that changed and re-formed, gaining international attention. In the English translation, however, there was a problem: the Italian term “canale” can be translated as “channel” but also as “canal”; the overly literal translation with “canal” would indicate artificial waterways. English-language readers thus had the impression that Schiapparelli had seen artificial canals on Mars, implying that a civilization existed there. This led to the widespread idea of the Martians, which survived until the time of the famous radio drama by Orson Welles, The War of the Worlds, which triggered reactions of panic when listeners believed there was truly a Martian attack in progress. This was in 1938. Orson Wells said: “the extent of our American lunatic fringe had been underestimated.” But only one year later, quite another lunacy was unloosed, with the outbreak of World War II. All the powers spoke of peace after World War I, but they knew it would not last, because – as Keynes clearly understood in The Economic Consequences of the Peace (1919) – it was too humiliating. Therefore all the powers prepared for war, and war it was. Many dreamt of a final weapon, as Goebbels said, a Wunderwaffen, an astonishing weapon, but it was built in America, by a group of scientists led by Oppenheimer. With a useless but dramatic massacre of civilians, that weapon put an end to the worldwide conflict. The world entered the atomic age, in which the new enemy was Russia, not only because that country was the old geopolitical adversary of the British Empire, in an opposition between an imperialism of the nomos of the land with respect to the English nomos of the sea, but because Russia was the guiding force of world communism. The new war was systemic, based on class struggle, capitalists against labor force, bourgeoisie against proletariat. Red was the color of the Marxist planet, so in science fiction the red planet became the planet of communism, and the invasion of the Martians was confused with the invasion of the Marxians. During the 1950s many science fiction films were produced, based on the red planet and its terrible invasions that regularly threatened to bring about the end of the world. The anxiety generated by the Cold War was no longer the sadness over the end of a world: that of the aristocracy. What was at stake was not the end of a world, but the end of the world, the apocalypse. The theme of apocalypse was addressed by Ernesto De Martino in his last book, The End of the World (1977), where he speaks of the crisis of presence. De Martino also analyzed a phenomenon of possession that survived in the folk traditions of southern Italy: tarantism, which once again had to do with the female gender, inside oppressive rural patriarchal societies. But De Martino points to a conception that goes beyond the methodological individualism of depth psychology. He avoids falling into the trap of bourgeois individualism, and instead takes the perspective of agents interested in a common world, a Mitsein that always threatens to collapse through dehistorification, and thus the loss of sense of the future, therefore requiring support through acts of reparation. The trance, then, is not only an individual crisis but also a reparatory act to sustain a common world. In it the medium follows personal but also communitarian dynamics. The fact that the society fin de siècle needed the medium should be seen in relation to the Spenglerian sense of threat for western civilization that was sensed by the European intelligentsia. The visions of the red planet thus express the search for a world alternative to planet Earth. America saw the red planet as a threat to its dominion, while on the other hand, in Russia, there was a different tradition. In revolutionary Russia we find two science fiction novels. One presents a negative view of Mars, but due to its interpretation in mythological terms, linked to the god of war. The title of the novel is Aėlita, by Aleksey Nikolayevich Tolstoy, whom we should not confuse with Lev Tolstoy. The Martian society is portrayed as militaristic and dictatorial. The protagonist falls in love with the icy and beautiful Martian and martial queen Aėlita, only to realize thanks to a faithful friend that she is a merciless dictator. He revolts against her and persuades the populace to do the same. The novel published in 1922 prescient warning against the seduction of militarism. The other novel is from 1906 and is titled Red Star. Now it is all too clear that the red star is the symbol of the socialist revolutionary forces. The intent of propaganda is thus evident straight from the title. In this book the hero discovers that on Mars there is an egalitarian, peaceful and collectivist society. In short, a true utopia, somewhat similar to the one imagined by Hélène Smith. This image of a collectivist society jibes perfectly with the American nightmare of the red menace. Therefore it is easy to understand that Mars could represent a dream for a people that had suffered from exploitation and submission, while it could also be a nightmare for others, i.e. for a dominant, conquering nation.

Marina Gasparini, however, tells me about another particular factor. She began to think of Mars as the crossroads of many different but connected metaphors, already prior to her trip to India. Marina wanted to do an exhibition at the “Bagni di Mario” in Bologna, a 16th-century cistern now without water, a deserted panorama that is a bit “after the bomb.” This was precisely in a moment in which the news media were informing us that Mars was once a planet with water on its surface, like the Earth. This water is said to have evaporated, in part, while the remaining part survives in an enormous area of permafrost, especially beneath the polar caps. If Mars could once have been the metaphor of the communist social utopia, now that the planet has been reduced to a great desert this utopia itself has been desertified. And this consideration is particularly pertinent to Bologna, which was once the red star of Italian communism, and has now been reduced to an arid patch of ground, like the red planet. So we have reached a clarification of the implications of the vision of Mars as a political metaphor, but we have forgotten about Elon Musk. Elon Musk can certainly not be counted amongst the ranks of Marxist Marsophiles, nor among those of liberalist Marsophobes. He is definitely light years away from Marxism, having expressed Trumpian sympathies, though we also know that Elon Musk – like other billionaires – has leanings towards a philosophy known as “longtermism,” and its sphere of ethical reference known as “effective altruism.” In particular, Musk is interested in the idea that over the long term the ecological crisis can imply an existential risk for humankind. Tracing back, if the Decadents sensed the disquiet for the fall of western civilization under the pressure of the industrial revolution, and if from the 1950s onward mass society has expressed its anxiety about the thread of nuclear Armageddon, today the situation has not improved. In fact, today there is not simply the fear caused by climate change and artificial intelligence, but also the fear of the end of western civilization, joined in recent times by the fear of nuclear catastrophe. If we do not understand the long-term concerns of this thinking, we cannot grasp the deeper reasons behind Musk’s interest in Mars. Musk addresses many of these concerns, though not all of them. Thus the problem arises of working on an escape plan, or at least a plan B, so as not to succumb to possible disastrous outcomes. In science fiction literature there is by now even a familiarity with the idea of great spaceships plying the stellar reaches with a cargo of hibernating human beings, ready to reawaken after endless voyages in outer space. Nevertheless, for some time now science fiction has given up on the hypothesis of mass migration to neighboring planets. Also because space exploration has removed the credibility of all hypotheses of nearby planets that could be easily colonized. No one still believes that the canals on Mars were built by Martians, although those seeking archeological evidence of a very ancient Martian civilization thought to have escaped from their planet – which was once blue, and then began to dry up – reaching the Earth and giving rise to human history, have not totally vanished. They say the previously abundant water evaporated to a great extent, though some of it is still trapped in the permafrost, especially at the poles. At this point Musk comes along with the idea of sending nuclear bombs to melt the ice under the poles and to trigger a chain reaction that would even restore an atmosphere on Mars resembling that of the Earth. Today the temperature on Mars is very low, but at the equator it can reach 25 degrees Celsius during the day, and this means that the creation of a greenhouse effect would also make the nights milder. In short, after the bombing the red planet would return to being blue, as it is imagined to have been once upon a time in the past. The atmospheric pressure would also rise, though it would still be far lower than that of Earth. So the dream of making Mars inhabitable is very strong, and the business strategies to set it in motion emphasize all the positive possibilities, however insufficient and scarcely probable they may be. In many case, technological and scientific projects feed on aspects and emotional drives that may even be unconscious, and are far from being rational. Tesla, the “wizard” of electricity who became the inspiration for Elon Musk’s visionary rise and enterprise, said that he talked with Martians or Venusians via radio. Actually, it can well be assumed that this was a phenomenon of psychophony, known in English as EVP, which stands for Electronic Voice Phenomenon, familiar to scholars of the paranormal but also to psychiatrists. With Hélène Smith, Tesla shared the taste for pareidolia, which is the tendency to see forms in things without form, or for apophenia, a similar phenomenon that consists in attributing familiar perceptional schemes to random, unrelated elements, constructed connections where none actually exists. We can say that pareidolia has to do with an aesthetic inclination, and apophenia with a more theoretical bent, to the extent that it is more directed towards gnoseology. The point is that these are not just deviant inclinations of brilliant but unstable personalities like Nikola Tesla; they are the basement levels of rationality, in which it mingles with the irrational and even the fantastic, not to mention delirium. They punctuate the history of scientific thought, and it is worth recalling that science emerges from the mists of astrology, magic and alchemy. If we read the Renaissance naturalists such as Bernardino Telesio, who believed that nature should be studied iuxta propria principia and was speaking a few decades before the theories of Galileo, we can see that there is still much that is magical or alchemical in his conception of nature. The same is true of Giordano Bruno, a contemporary of Galileo (they lived for a period at a distance of just a few kilometers, and could also have crossed paths in the city of Venice). After all, even Galileo was not above offering his services as an astrologer, writing horoscopes for a fee. Isaac Newton practiced alchemy and was hired by the Royal Mint as an expert on gold. We are told about science as it emerged from the mists of such doctrines, after which it was able to break free. The history of science, however, narrates another truth: irrationality has never ceased to nip at the heels of science, and to mingle with it. After alchemy, in fact, came the studies on electricity. Electricity was perceived as a sort of magical fluid, sometimes invisible, sometimes visible in luminous phenomena, which could pass through bodies. Prodigious demonstrations of electroluminescence were produced, arriving at Tesla himself and his performances using his own body to illustrate phenomena of electrical induction. Tesla’s personality stands out in this cultural background of contamination and lack of distinction between scientific practices and magical paranormal wonders. We can also consider the idea of bringing dead bodies back to life which forms the basis of Frankenstein by Mary Shelley, written with reference to theories that were in circulation at the time. The cliché of the mad scientist also emerges from this boundary between science and the irrational. In the case of magnetism, this aspect is even more pronounced. Just consider Franz Anton Mesmer and the mesmerism that bears his name, which was so widespread in the world of occultism that still in Italy, during the last century, during seances the medium was often called “la magnetizzata.” It is said that Mesmer was criticized by the scientific community, yet still in the 19th century the natural world was perceived as being laden with mystical, spiritual and irrational elements that had been discussed by the naturalists of the Renaissance. With Romanticism Naturphilosophie spread among the finest minds of German philosophy like Schelling and Schopenhauer, a philosophy of nature that mixed scientific, spiritualist and mystical claims regarding nature itself. Finally, radioactivity made inroads in the midst of bizarre theories and imaginative fascinations, such as those connected with the use of X-rays, linked again in this case with the circles of Theosophy. Röntgen himself called these rays “X” because they were mysterious and he knew not how to define them.

In conclusion, we can infer two positions that intertwine in this metaphor of bombing Mars and its imaginative but also metaphysical civilization, evoked by the ceramics which in turn refer to the drawings of Hélène  Smith. The first reminds us that we are suspended in the face of the thematics of the end, the crisis, the apocalypse, in a dimension where science is unable to break free of its intertwining with the irrational. The second, instead, is more ironic and political, and seems to suggest the idea that perhaps the red planet of politics, once rich in waters and now arid, might be in need of a bombing to make its waters hidden in the ice return, bringing life with them. For this to happen, a psychic and visionary attitude is required, capable of again indicating utopian cities, from which the Martians/Marxians can go back to speaking their futuristic language. In a certain sense, we might say “Nuke Marx,” not to destroy him but, to the contrary, to bring him back to life. However one sees it, the work of Marina Gasparini is not limited to ceramics, because these ceramic pieces are like the diodes of a thinking machine full of inputs and considerations, re-elaborating the work itself as a machine for thinking, or even more so for meditating on these difficult times, in our time.

 

 

Roberto Terrosi

 

 


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